15 passi verso la riconversione green: 3° passo – le materie prime

Il tema delle materie prime utilizzate per produrre i beni oggetto della nostra attività è da considerare, ai fini di una riconversione green della nostra azienda, come uno degli aspetti più rilevanti e strategici.

Come per tutte le questioni che riguardano un approccio produttivo ecosostenibile, la cura degli approvvigionamenti delle materie prime con cui vengono realizzati i nostri prodotti è un tema basilare per rendere credibile il nostro percorso «volontario» di riduzione dell’impatto ambientale; ciò non toglie che sia complesso da gestire, ancorché necessario.

Non trascurabile nemmeno il tema delle normative che, soprattutto nel settore agroalimentare, interviene per definire il campo dei prodotti BIO.
A dir la verità, nell’agroalimentare si distinguono prodotti naturali, biologici, ecologici, organici e biodinamici, ma nella nostra analisi ci limiteremo al confronto tra BIO e ECO.

Essere Bio – Essere Eco

Generalmente appartenenti al settore agroalimentare, essere BIO o essere ECO riguarda due mondi completamente diversi; in estrema sintesi, i primi (BIO) rispondono a regolamenti UE pubblicati in Gazzetta Ufficiale, mentre i secondi (ECO), rispondono a certificazioni volontarie o certificazioni che rimandano a società specializzate, che rimandano a loro volta a dei protocolli riconosciuti.

L’ambito tuttavia a cui desideriamo rivolgerci nel 3° dei nostri 15 passi è molto ampio, e non riguarda solo l’agroalimentare.

Approvvigionarsi di materie prime in linea con i nostri obiettivi, non attiene solo alla loro provenienza certa o certificata, ma anche ad esempio al loro costo; è logico pensare che una materia prima più ecosostenibile di un’altra, o certificata, possa costare di più?
Ciò è molto probabile; da qui la necessità di valutare le nostre scelte green in un ambito di riflessione più ampio, strategico, di ri-posizionamento della nostra azienda, o almeno del nostro nuovo prodotto, come già evidenziato nei precedenti articoli (vedi), con tutte le conseguenze che ciò può portare al futuro della nostra azienda: mantenimento della giusta competitività, clientela a cui ci rivolgiamo, richiesta esplicita del mercato a cui ci rivolgiamo.

Ricordiamo che la tecnica del «un passo alla volta» è quella che, alla fine, pagherà di più nel processo di riconversione green.

Tralascerei, in questa fase, un altro elemento relativo alla cura dei dettagli nella scelta delle materie prime, per quanto attiene la scelta del nostro nuovo fornitore “green”, che è il trasporto della materia prima stessa.
Prendiamo ad esempio una cartiera che produce carta certificata FSC (Forest Stewardship Council), e che si trova in Svezia, una delle aree europee dove si è più sviluppata nel tempo questa cultura.
Come arriveranno i rotoli di carta dalla Svezia fino alla nostra cartiera?
Immaginiamo, per comodità, un sistema intermodale di trasporto: acqua – terra, nave – treno – gomma.

Vogliamo calcolare l’impatto ambientale di tale trasporto, cioè il suo «carbon foot print»?

Meglio di no; non tanto perché ciò non sia rilevante, o calcolabile, quanto perché non siamo nella condizione di poter controllare tutto il processo, anche perché il processo è parte di un sistema infinitamente più grande di noi.
Limitiamoci dunque al fatto più rilevante, per quanto concerne la nostra nuova produzione green, che riguarda appunto la provenienza «certificata» dei rotoli di carta da parte di un ente super partes, riconosciuto a livello internazionale.

Un’economia «dispendiosa»

Tutta la nostra economia è basata su attività molto dispendiose dal punto di vista ambientale, e la globalizzazione è stata un grande acceleratore di questa distorsione.

La Terra che ci ospita non è fatta su misura per l’Uomo, bisogna riconoscerlo, perlomeno per l’Uomo che abbiamo conosciuto fino da oggi.

Una sterzata collettiva verso una maggior consapevolezza e determinazione nell’intraprendere il passaggio ad un’economia basata su principi di sostenibilità ambientale compiuta, è una delle sfide più grandi che in quest’epoca storica l’umanità è chiamata ad affrontare; a noi è richiesto di fare la nostra parte, ma ciò è tutt’altro che poco, se moltiplicato per milioni di casi al mondo.

La scelta delle materie prime è dunque rilevante ai fini del nostro progetto.

Facciamo alcuni esempi per comprenderne la portata, e per far questo prendiamoli direttamente dalla sezione “Greenwatching” di questo blog, dedicata all’analisi della comunicazione che fa leva sugli argomenti tipici della sostenibilità ambientale e del CSR (Corporate Social Responsibility).

Agroalimentare

Per allevare polli e tacchini che possano essere definiti “Bio” (ad esempio, Fileni Bio), le materie prime alla base dell’attività, essenzialmente i mangimi (soia, mais e grano), non possono che essere anch’essi bio.
Per poter dunque dichiarare che il nostro prodotto finito possa essere marchiato “Bio”, con tanto di logo della comunità europea, è necessario attenersi alle regole contenute nella normativa europea UE 2018/848 che abroga il precedente CE 834/2007; oltre a ciò vi sono organismi di controllo che verificano il rispetto di tali regole.

Vi sono dunque marchi affermati che allevano, producono e distribuiscono carne ovina bio su larga scala.
Il gruppo Fileni ha superato nel 2018 i 400 mln di € di fatturato, e non lo si può certo considerare una PMI.
Come potrebbe una PMI di medie dimensioni competere con questi colossi, in un ipotetico progetto di riconversione bio della propria attività?

La ricerca di una nicchia di mercato da presidiare, alzando ancora di più l’asticella della sostenibilità, può essere una strada decisamente opportuna.
Rimanendo in tema, le uova di Uovodiselva è un esempio compiuto di posizionamento di nicchia con forte connotazione di ecosostenibilità.

E se mai il nuovo posizionamento fosse all’insegna del vecchio proverbio «Gallina vecchia fa buon brodo»? … In un altro mondo, forse.

Biscotti e merendine

Interessante il confronto tra il caso precedente e Oro Saiwa, il famoso biscotto a base di grano, altro caso di spot pubblicitario analizzato su Greenwatching.

Oro Saiwa non è un prodotto bio, sebbene venga presentato come prodotto rispettoso dell’ambiente e della biodiversità.
I produttori di grano, la nostra materia prima base, sono selezionati e controllati rispetto a dei criteri che evidentemente sono “interni” alla Mendelez International e non attinenti alla normativa europea sulle coltivazioni biologiche.
Poco male, nel senso che probabilmente motivi di produzione, competitività e mercato non consentono (o non suggeriscono) all’azienda di spingersi fino a questo livello di sostenibilità per Oro Saiwa.

In questo terreno dunque le variabili sono più numerose e gli spazi di manovra più ampi, e i vari marchi in competizione possono elaborare strategie simili e al tempo stesso diverse per confrontarsi sui temi della sostenibilità ambientale e della biodiversità.

La comunicazione e la credibilità del brand giocheranno un ruolo importante in questo contesto.

Per una PMI che produca biscotti a base di grano e che voglia competere con questi mega brand, quale sarà la strada migliore?

Uno di questi è sicuramente il Bio che si attiene alla normativa europea.

Automotive

Chiudiamo la breve carrellata di esempi suggeriti da Greenwatching parlando di Fiat 500 Hybrid.

Diciamo subito che realizzare un’auto a motore termico o un’auto ibrida (motore termico ed elettrico insieme) non comporta un minore impatto ambientale nella fase di produzione, ma solo a partire dal suo utilizzo, cioè durante il suo ciclo di vita.
Nella pubblicità in questione si fa leva sul tessuto Seaqual, una materia prima proveniente dal riciclo della plastica, con cui è realizzato il tessuto dei sedili, per accrescere il valore green percepito.

Premesso che l’industria “automotive” alimenta fortemente il terzismo, l’indicazione che scaturisce da questo esempio è che proprio i terzisti dell’indotto automotive potrebbero – dovrebbero innovare proponendo soluzioni più eco dei loro componenti, soluzioni a cui i produttori di auto sono sicuramente interessati.

Plastica

La plastica è indubbiamente una delle invenzioni più geniali che l’uomo abbia potuto realizzare.

Entro certi limiti, dunque, la raffinazione del petrolio finalizzata alla selezione dei polimeri che costituiscono le varie plastiche è utile e necessaria per migliorare la nostra vita; il problema in questo caso nasce dopo, quando l’oggetto di plastica è arrivato a fine vita, cioè quando andrebbe sempre raccolto correttamente e, quanto più possibile, riciclato.

Molte PMI italiane hanno infatti a che fare con materie prime difficilmente riconducibili a un alveo di maggior ecosostenibilità: l’acciaio, ad esempio, è sicuramente uno di questi, ma anche inevitabilmente la plastica.
Tra le PMI che meglio hanno interpretato fino ad ora il rapporto con la plastica, dandole una dignità e un valore molto alti, c’è sicuramente Kartell.
Kartell è riuscita, attraverso il design e l’immagine, a definire un principio fondamentale per l’ecosostenibilità della plastica, e cioè la sua “durabilità” nel tempo.

Acquistare o entrare in possesso di un oggetto Kartell, sebbene realizzato in pura plastica, difficilmente suggerisce l’idea di raccolta differenziata o discarica ma, al contrario, ci suggerisce l’idea di valorizzazione e conservazione.

Kartell non ci risulta che abbia mai seriamente pensato a implementare iniziative di ecosostenibilità, perlomeno il sito non le comunica, limitandosi a incentrare la propria brand identity attorno al mondo del design.
Tuttavia, ai fini della nostra analisi, l’esempio di Kartell rimane utile, in quanto determina un valore di sostenibilità allargato all’intero ciclo di vita del prodotto: «se la materia prima che caratterizza la mia produzione non può essere, almeno per ora, considerata a basso impatto ambientale, cerco di orientare la mia produzione verso valori di sostenibilità indiretta, complementare: la durabilità nel tempo è una di queste.»

La durabilità nel tempo, infatti, è uno dei valori di sostenibilità che appartengono anche al mondo fashion, soprattutto luxury.