Fase 2: cosa cambia nei consumi ecosostenibili dopo il Covid-19.

Prima di cominciare questa riflessione mi sembra opportuno fare chiarezza su cosa sia il Coronavirus, cioè cosa la scienza ci consegnerà di vero e provato, in merito a questo virus, quando la pandemia sarà passata.

Una delle letture che mi ha fatto compagnia durante il lockdown è «Spillover», di David Quammen (Gli Adelphi), un libro dedicato proprio ai virus che ci hanno fatto dannare negli ultimi 40 anni, HIV incluso.
È un libro entusiasmante, che consiglio a tutti di leggere, e che fa capire molto bene cosa ci sia dietro questi virus così aggressivi, così letali per l’uomo.

Quindi, sulla base di letture autorevoli e dall’attendibilità scientifica riconosciuta, posso dire che, al di là di tutte le ipotesi complottiste che sono state avanzate in questi mesi, a proposito della pandemia da Coronavirus, questo virus si è manifestato nell’uomo probabilmente attraverso un salto di specie, uno «spillover» appunto da un animale selvatico verso la specie umana.

Finito in uno dei mercati umidi della Cina centrale, non si sa ancora come e a causa di chi, passato all’uomo, dove ha trovato terreno fertile per manifestarsi, è stato successivamente «trasportato» in tutto il mondo dal nuovo, nuovissimo vettore dei nostri tempi, responsabile già in passato della diffusione di altri virus patogeni, e cioè l’aviazione civile, veicolo di punta della globalizzazione.

Punizione Divina, vendetta della Natura o Pandemia

La riflessione sulle possibili ripercussioni della pandemia nei confronti dell’eco sostenibilità parte dunque proprio sgombrando il campo da false interpretazioni del fatto epocale: «NON si tratta di Punizione Divina, NON si tratta di Vendetta della Natura; la pandemia da Coronavirus è uno degli eventi possibili di zoonosi tra animale e uomo, come già molte volte avvenuto nella storia dell’umanità, con l’aggravante di un contributo umano sostanziale alla sua diffusione, merito della civiltà e dell’avidità umana.»

La scienza nei prossimi anni ci consegnerà la sua verità, che si baserà su analisi, scoperte, verifiche, prove; la scienza è il punto di incontro tra uomo e pandemia, che ci permette di interpretare predittivamente quello che avverrà nei consumi e nelle attività umane nei prossimi mesi – anni.

Se la pandemia che stiamo combattendo è il risultato dell’agire umano, rapportato alla cosiddetta civilizzazione, quindi all’avvicinamento dell’uomo agli animali selvatici, per ragioni urbanistiche, turistiche e alimentari, ci troviamo di fronte a un bel dilemma.

L’economia di mercato globalizzata comporta una uniformità di intenti e di codici comportamentali, ma non è così per quanto attiene la cultura e le abitudini quotidiane dei popoli, con particolare riferimento a quelli emergenti.
In Cina c’è un detto che dice che i cinesi, soprattutto nella parte sud del paese, mangiano tutto ciò che vola, a parte gli aeroplani, a significare che per loro emancipazione e ricchezza passa attraverso il mangiare tutto quanto di animale sia commestibile, soprattutto se selvatico.

Nel saggio di Quammen vi sono numerosi esempi di contatto scientificamente provato tra esseri umani e animali serbatoio di virus per noi letali, avvenuti per curiosità turistica (soprattutto occidentale), o per aver toccato o mangiato carne di animali infettati da virus attivi (soprattutto asiatica o africana).

Siamo dunque di fronte ad una svolta: «Ci piace il mondo in cui viviamo e soprattutto il modo in cui viviamo in questo momento di lockdown?»
In caso la risposta sia negativa, è d’obbligo formulare altre domande: «Siamo disposti a cambiare veramente le nostre abitudini? Siamo in grado di imporre ai cittadini cinesi di non mangiare più carne selvatica, o ad altri popoli di evitare il disboscamento di foreste millenarie in nome della civilizzazione e dell’economia? Abbiamo questa capacità, qui, dall’Italia, o dall’Europa?»

Onestamente, credo di no; basti pensare a quanto difficile sia prendere un nuovo accordo sul «climate change» a livello mondiale; tra gli USA che non partecipano ai lavori e non approvano, tra i paesi ex emergenti (Cina, India) che sfruttano ancora l’opportunità di inquinare senza limiti in nome di una uguaglianza con i paesi occidentali che hanno inquinato nei 200 anni precedenti senza render conto a nessuno.
Come possiamo noi impedire a un indiano, o a un cinese di avere 2 auto, 4 televisori, una o più seconde case etc etc, in nome di un ormai necessario contenimento dell’inquinamento?

Peccato che tra i 2 paesi citati possiamo contare 2,5 miliardi di esseri umani, che nel giro di 10 o 15 anni potrebbero (almeno una buona parte di loro) raggiungere il nostro livello di benessere.

Passata la tempesta … le vecchie abitudini riprenderanno

Quindi, riprendendo il ragionamento alla base di questo articolo, è probabile che quando la tempesta sarà passata, molte delle vecchie e cattive abitudini riprenderanno, con diversa intensità da continente a continente, ma comunque riprenderanno, con buona pace del contenimento delle emissioni.

C’è solo un fatto che depone a favore di una riduzione dell’inquinamento nell’immediato, e cioè che la fase di ripresa totale delle attività, secondo molti osservatori, sarà piuttosto lunga, nell’ordine cioè di anni, e non di mesi.

Tuttavia solo un drastico e risolutivo intervento politico, condiviso a livello globale, può essere veramente efficace per accelerare il processo di contenimento delle emissioni di CO2, e non saranno certo solo i cittadini del mondo ad auto limitarsi, anche perché il tema è estremamente complesso e interlacciato e inoltre la conversione richiede investimenti molto ingenti.

Prendiamo un altro esempio concreto, molto concreto, per decifrare la «realtà» del nostro day by day.
Siamo alle soglie di una nuova fase della pandemia, la cosiddetta Fase 2, dove mascherine, guanti in lattice e disinfettanti saranno venduti a milioni e milioni di unità (miliardi a livello globale).
Dove finiranno le mascherine monouso e i guanti monouso che «consumeremo» nei prossimi mesi?
Ci sono dei contenitori atti a riceverli dopo l’uso, o verranno impunemente (senza colpa del cittadino, tuttavia) gettati ovunque? Probabilmente finirà così.
E come verranno riciclati quelle quantità portentose di dispositivi?
Verranno, nella migliore delle ipotesi, bruciati nei termovalorizzatori, insieme a tutti i rifiuti indifferenziati.

Bene, questa attività umana, assolutamente essenziale per la nostra sicurezza, non sarà annoverata tra quelle più eco sostenibili della storia recente.

In altre parole: «Benvenuta eco sostenibilità, a condizione che non metta in discussione alcuni punti fermi dello sviluppo dell’umanità e della conservazione della specie, che sin dagli albori della civiltà occidentale (Antica Roma) genera il consueto atteggiamento del“getta e dimentica”».

Vediamo la composizione chimica del tessuto non tessuto di cui sono composte la maggior parte delle mascherine (fonte Enciclopedia Treccani): «NON TESSUTO: Struttura tessile piana prodotta con tecnologie diverse dalla tessitura e dalla maglieria; consiste in un velo di fibre (per es., polipropilene, polyester, rayon viscosa) tenute insieme con procedimenti di collegamento meccanico, chimico, termico.»

Vediamo anche la composizione chimica dei guanti monouso (fonte Wikipedia): «Il guanto di gomma è un guanto, generalmente di lattice, ma prodotto anche in materiali ipoallergenici come “vinile” (Cloruro di polivinile, PVC) e “nitrile“ (gomma nitrilica, gomma sintetica), destinato a proteggere le mani da agenti di vario tipo, principalmente dannosi per la pelle, oppure a proteggere i materiali manipolati, ad esempio cibi, da possibili contaminazioni.

La plastica, in quanto derivato dal petrolio, rimane una delle invenzioni più rilevanti dell’umanità, e difficilmente potremo farne a meno in futuro.
Non è nemmeno giusto demonizzare le varie plastiche che utilizziamo in modo indiscriminato, in quanto facilitano molte attività e le rendono sicure e “leggere”.

Ci sono purtroppo diversi oggetti post consumo composti da polimeri difficilmente riciclabili, anche a causa del fatto che il mix di polimeri da cui sono composti sono difficilmente separabili, come ad esempio il PE HD delle bottiglie per il latte o i flaconi di detersivi.

«Getta e dimentica»

Non fanno parte di questi esempi le vituperate bottigliette di plastica, che sono in PET e che se gestite in un sistema chiuso di riciclo, possono in effetti dar vita a nuove bottiglie destinate a contenere acqua.

Le recenti campagne contro le bottigliette non sono dunque «contro» il principio del riciclo bensì contro l’atteggiamento del «getta e dimentica», come risulta evidente negli oceani.
Poiché siamo tutti colpevoli, l’iniziativa mediatica assomiglia a una sorta di avvitamento comportamentale: «uso, getto, dimentico … e poi mi pento».

Quel «… e poi mi pento» è la leva su cui agire per cercare di migliorare l’ambiente che ci circonda, un sanissimo senso di colpa collettivo che va coltivato con cura.

Tornando al tema principale dell’articolo, ovviamente lo strascico economico, e la conseguente profonda crisi che cittadini e imprese dovranno sopportare a lungo, influirà necessariamente sui consumi, sia sulla quantità sia sulla qualità.

Proviamo a fare qualche ragionamento in proposito, soprattutto in relazione all’opportunità o meno di orientarsi verso un’offerta più ampia e credibile di prodotti eco sostenibili.

Lockdown & Co

Una delle conseguenze del lockdown è la ridotta mobilità, intesa come mobilità fisica, ma anche la compensazione delle privazioni attraverso soddisfazioni di tipo alimentare.

I social sono infatti pieni di video che ironizzano sul fatto di ingrassare, oppure di cimentarsi in cucina preparando manicaretti molto invitanti, oppure di fare esercizi che compensino la mancanza di attività sportiva.
Ci sono sicuramente eccezioni, ma questo è un mood molto ricorrente nei social.

Non mi sembra quindi che siamo alla vigilia di una riduzione dei consumi alimentari; è possibile tuttavia che in termini di qualità ci possa essere un’evoluzione, che tuttavia sembrerebbe orientarsi verso una conferma dei trend pre pandemici, indipendentemente dal fatto che ci siano meno soldi da spendere; faremo meno vacanze, viaggeremo meno, andremo meno al ristorante, lavoreremo più da casa, ma i consumi alimentari dovrebbero rimanere una valida «àncora di salvezza», anche psicologica, per la maggior parte dei cittadini, senza rinunciare più di tanto al livello di sofisticazione raggiunti durante la lunga pausa forzata.

Sebbene il dato dei consumi puramente alimentari sia in crescita presso la grande distribuzione, dovremo attendere la riapertura dei piccoli negozi di prossimità per determinare la tenuta del comparto anche in tempo di pandemia, anche in considerazione della riapertura di mense aziendali e ristorazione.

Più qualità, meno grassi animali, più vegan, più verdure, sono parte delle tendenze già in atto negli scorsi anni, e previste da tutti gli addetti ai lavori nel periodo precedente al Covid-19.

La mia opinione è che queste tendenze non si interromperanno, ma avranno uno sviluppo naturale, e non esponenziale.

Se invece guardiamo a tutti gli altri prodotti, è possibile che ci sia uno spostamento della richiesta verso prodotti meno cari, ma non necessariamente green, o addirittura alla rinuncia all’acquisto, temporaneo o persistente che sia.

In estrema sintesi, il lockdown sarà ricordato più come un tempo sospeso che come un momento di rinascita collettiva, dove avremo sicuramente imparato a conoscerci in situazioni nuove, a sopportare privazioni o a scoprire nuove attitudini e nuovi piaceri, ma a sospensione finita tutto dovrebbe pian piano tornare come prima.

Per molti, ma non per tutti, il portafoglio sarà più vuoto di prima, e di conseguenza per queste persone le abitudini, loro malgrado, cambieranno.

Una politica «rivoluzionaria»

La tendenza verso una più consapevole eco sostenibilità dei consumi riprenderà dal punto in cui l’avremo lasciata, ma a mio avviso non conoscerà un’impennata post Covid-19.

Se invece, attraverso una politica «rivoluzionaria», le aziende produttrici e i distributori dovessero adottare una nuova politica di prezzo nei confronti dei prodotti green, portandoli ad un livello di prezzo più abbordabile, concorrenziale rispetto ai prodotti comuni, anche per rispondere alle esigenze di molti, allora questa potrebbe essere una mossa culturalmente e socialmente vincente, «rivoluzionaria» appunto.

Da un certo punto di vista, possiamo dire che la «sfida» è aperta tra brand e private label, nel senso che l’opportunità di espandere considerevolmente l’offerta dei prodotti eco sostenibili a prezzi concorrenziali rispetto ai prodotti comuni, è a portata di mano sia dei retailer, con i prodotti a marchio, sia dei brand.

«L’Ipcc, il Climate Panel dell’Onu, afferma nei suoi documenti ufficiali che è “assolutamente verosimile che l’uso dei combustibili fossili sia la causa principale del riscaldamento globale degli ultimi 50 anni”. Gran parte delle emissioni climalteranti in atmosfera derivano dai combustibili fossili, sia per uso energetico che per i trasporti, camion, navi, aerei.»
(fonte blog lifegate.it)

Precisamente sarebbero i 3/4 dell’incremento di CO2 degli ultimi 20 anni.

Il cosiddetto «Global Green New Deal» cui staremmo per assistere entro la fine del presente decennio, secondo le analisi e le previsioni di Jeremy Rifkin, chiaramente enunciate e dimostrate nel suo nuovo saggio «Un Green New Deal Globale», edito da Mondadori, già citato nell’articolo «Coronavirus: Ogni problema nasconde un’opportunità», porterà potenzialmente a sconvolgimenti nell’economia, e quindi nella nostra vita quotidiana, potenzialmente ben più devastanti di quelli provocati dal Covid-19.

In questo contesto, sarebbe autorizzata una dietrologia complottista che sostiene che quella attuale sia una grande prova generale per verificare le ripercussioni, sociali, economiche e culturali di un lockdown generale forzato; vera o non vera che sia, questa teoria ha il pregio di essere attendibile nei fatti, in quanto l’umanità non si è mai trovata a vivere un periodo di blocco così prolungato: «Le conseguenze saranno presto misurabili e analizzabili, sia dal punto di vista sociale, sia psicologico, sia economico.»

Abbiamo ad esempio potuto constatare che la resistenza umana al confinamento (economico) forzato è nell’ordine di settimane / mesi, cosa che non depone a favore di sconvolgimenti socio-economici troppo repentini, drastici e duraturi.

Concludendo

1) Le aziende e i distributori farebbero bene a pensare prima di tutto a come ridurre l’impatto ambientale nella logistica delle loro aziende, preparandosi concretamente ai cambiamenti epocali che stanno per annunciarsi e che vedranno il passaggio rapido da energia fossile a energia da fonti rinnovabili (entro 5 anni secondo le previsioni di Rifkin).

2) Per quanto riguarda i prodotti, come detto sopra, sarebbe opportuno agire in nome di una «rivoluzione» nei consumi, dove i prodotti green, bio, eco sostenibili siano la routine per tutti e non il premio per pochi.

3) Produttori e Distributori dovrebbero infine pensare concretamente a come incidere sull’economia circolare.

Un prodotto, un pack, ad esempio, deve essere progettato in partenza per essere riutilizzato, provvedendo a pensarlo già in fase di design per una concreta seconda e terza vita e non per essere termovalorizzato (cioè bruciato).
Faccio un esempio per farmi capire: prendiamo una vaschetta che contenga legumi o piatti pronti e immaginiamo di progettarla non tanto solo perché contenga al meglio il prodotto (tra l’altro appartengono alla categoria dei prodotti da packaging difficilmente riciclabili), ma per favorire che venga utilizzata dal consumatore, servito e presentato in tavola, senza passare per «cheap», ma come molto «cool».

Consumare direttamente dal contenitore (vaschetta), renderlo lavabile in lavastoviglie e infine pensato per un fine vita ulteriormente riciclabile, questo rappresenta un esempio concreto di economia circolare applicata.

Per chi ora, leggendo queste ultime righe, dovesse sorridere, o pensare che questa proposta sia banalmente stupida o irrealizzabile, in quanto «le vaschette sono … bla bla bla», allora significa che il senso vero dell’economia circolare non appartiene a questo lettore.
Non dico che sia facile, ma necessario, sicuramente sì.

È un tema che attiene allo stile, alla comunicazione, agli usi e costumi di una comunità, di un popolo, dell’intera umanità.