15 passi verso la riconversione green: 4° passo – il processo produttivo

L’analisi accurata del processo produttivo di una qualsiasi azienda manifatturiera, che opera con sistemi tradizionali, è alla base di una corretta interpretazione e implementazione della loro possibile riconversione verso una più spiccata e sistematica eco sostenibilità.

Inutile dire che il processo produttivo rappresenti l’aspetto più spinoso della trasformazione delle aziende da poco virtuose a più virtuose, ma anche il più stimolante.

La questione riguarda la quasi totalità del mondo industriale produttivo a livello mondiale e rappresenta la vera scommessa per cercare di limitare le emissioni di CO2, e conseguentemente il contenimento dell’innalzamento termico dell’atmosfera terrestre.

Manifattura equivale a uso massivo di materie prime e uso massivo di energia, due aspetti nevralgici della questione.

Sin dagli anni ‘90 esiste e resiste l’approccio Life Cycle Analysis (LCA), o Life Cycle Assessement, che in sintesi rappresenta un metodo standardizzato di analisi molto specifica e approfondita di tutto il ciclo di vita di un dato prodotto («from cradle to grave», cioè dalla culla alla tomba) e dell’impatto che esso può avere sia nei confronti della salute dell’uomo sia nei confronti dell’ecologia.

Tutti i «15 passi verso una riconversione green in azienda» in sostanza rappresentano una introduzione a tutti gli aspetti costitutivi di un LCA completo.

Il processo produttivo, per definizione, è parte integrante, per non dire «centrale» del processo; la determinazione di un «prima» e un «dopo» la riconversione, è un buon sistema per determinare i risultati del percorso effettuato.

Per rendere più immediata la comprensione del valore di un approccio strategico nei confronti della riconversione green del processo produttivo della vostra azienda, suggerisco di considerare come necessari due attitudini spesso presenti nel nostro quotidiano professionale: la coerenza e la costanza.

Coerenza e costanza rappresentano i presupposti per poter ottenere un risultato concreto.

Negli articoli di questo blog riguardanti i «15 passi verso una riconversione green», che sono anche potenziali capitoli di un saggio rivolto agli imprenditori e ai manager a capo di PMI, che intendono approcciare in modo semplice e comprensibile il passaggio a una condizione di maggior eco sostenibilità, viene data particolare rilevanza agli aspetti culturali, sebbene gli aspetti tecnici non siano irrilevanti, come ad esempio la LCA sopra descritta.

In effetti, gli aspetti tecnici e tecnologici rappresentano, all’interno di questo percorso ideale, il mezzo per poter ottenere dei risultati concreti; tuttavia acquisirà sempre più valore un approccio culturale nuovo, grazie al quale cogliere in modo più consapevole l’opportunità di offrire al mondo l’opportunità di essere un luogo piacevole da vivere anche per le generazioni di umani a venire.

In altre parole, per rendere efficace il processo di riconversione green ha molte più chance un imprenditore «illuminato», oltre che intraprendente, piuttosto che un imprenditore «opportunista», costretto ad adeguarsi, ad esempio ad una normativa, o a un mercato che ti costringe a fare determinate scelte, pena l’esclusione dal mercato stesso.

Ciò è tanto più vero in ambito PMI che nelle multinazionali.

Ecco due esempi che chiariscono le profonde differenze tra l’approccio multinazionale e l’approccio PMI.

Elettrodomestici con efficienza energetica di classe A

Nella seconda metà degli anni ’90 la Comunità Europea decise di introdurre l’Energy Label, cioè una scala composta da 7 livelli di consumo energetico, dalla A alla G, vietando di fatto, a partire da quel momento, di introdurre nei mercati UE elettrodomestici eccessivamente energivori (classi di efficienza energetica superiori al livello G).

L’industria inizialmente accolse con disappunto tale costrizione, ma poi, subito dopo, reagì al problema dando origine alla più grande corsa tecnologica della storia degli elettrodomestici, mettendo sul mercato prodotti sempre più performanti nei consumi di energia e acqua, al di là delle indicazioni contenute nella direttiva europea.

Il paradosso è che l’evoluzione tecnologica è stata così impetuosa che le Energy Label per un lungo periodo sono rimaste ferme alla scala A – G delle origini, e le case produttrici nel frattempo forzarono i tempi costringendo la UE a introdurre classificazioni più performanti, fino alle attuali A+++ – 30% o – 40%, surclassando, è il caso di dirlo, le giuste indicazioni UE.

È storia recente che dal 2021 verranno introdotte le nuove Energy Label, che riposizioneranno le attuali classificazioni ai livelli originali, cioè da A a G, ma ovviamente corrispondenti a performance energetiche ben più efficienti del passato.

I principali produttori di elettrodomestici sono, a livello globale, senza dubbio delle multinazionali, e non credo onestamente che siano guidate «solo» o «soprattutto» da un sincero orientamento alla sostenibilità.

Diciamo che in questo caso industria e tecnologia hanno reso possibile rispondere efficacemente alle richieste della politica.

Automotive

L’esempio relativo al settore automotive è invece di sapore diverso, molto più problematico, e per questo merita di essere considerato.

Ricorderete tutti lo scandalo «dieselgate» che coinvolse il gruppo Volkswagen nel 2015.

In pratica la casa tedesca fu accusata dal governo statunitense di aver illegalmente installato un software sulle loro auto diesel, volto a manipolare a aggirare le normative vigenti in tema di emissioni di NOx (ossidi di azoto e loro miscele) e più genericamente degli inquinanti da gasolio combusto.

L’evoluzione di tali normative, sempre più restrittive, che hanno l’obiettivo di costringere l’industria a produrre motori diesel con emissioni sempre più ridotte, in attesa che il mercato automotive passi a nuovi paradigmi e soprattutto a nuove tecnologie, ha prodotto come risultato una grande contrazione del mercato stesso, dovuta a quattro fattori: 1) Gli eccessivi investimenti  che l’industria dovrebbe mettere in campo per cercare di rispondere al livello di prestazioni richiesto dalle direttive; 2) un certo generalizzato pregiudizio nel confronti di questo motore da parte delle istituzioni locali; 3) il disorientamento del pubblico, in bilico tra presente e futuro, in dubbio se possedere o condividere; 4) la difficoltà a trasformare in tempi rapidi il settore passando da motori termici a motori full electric o a Idrogeno.

L’unica risposta, per il momento, è l’affermazione del motore full electric e il successo dei motori ibridi, unica vera soluzione per rendere possibile la transizione, che richiederà diversi lustri per essere attuata (c’è chi sostiene anche fino a 20 anni).

Quello degli elettrodomestici e quello delle automobili sono entrambi mercati globali, in mano grandi gruppi industriali multinazionali, entrambi sono regolamentati dai governi, entrambi costretti dalle normative a ridurre l’impatto sull’ambiente dei loro prodotti.

Tuttavia gli elettrodomestici, prima e dopo la cura, continuano ad essere attaccati alle stesse prese elettriche, e a funzionare in sostanza nello stesso modo, mentre le auto sono veramente in una situazione molto critica, dove «passaggio epocale» è semplicemente un eufemismo, a riprova che anche nei settori industriali più importanti le situazioni non sono paragonabili.

Ciò nondimeno, almeno per loro, il percorso «virtuoso» è profondamente segnato e definito.

Una competizione più subdola

Perché invece in ambito PMI non basta la capacità di adeguarsi ai mercati, o alle direttive, e invece vale di più la visione, la cultura e la sensibilità nei confronti dell’ecologia?

Semplicemente perché le PMI sono entità decisamente più piccole, e sono soggette ad una competizione molto più subdola, variegata, difficile da decifrare e comunque globalizzata.

Il valore del singolo imprenditore, della continuità che esso desidera offrire alla propria azienda, rappresenta, a seconda dei casi, un vettore di crescita e sviluppo o l’innesco di lenta (o rapida) involuzione, il tutto in un contesto dove la capacità di investimento è comunque limitata, ma non certo trascurabile.

«Coerenza e costanza» valgono dunque molto di più nelle aziende più piccole, che si muovono in mercati solo relativamente normati e quasi mai istituzionalmente forzati verso il rispetto dell’ambiente.

Addirittura spesso le PMI appartengono al cosiddetto indotto di aziende più grandi, dove il futuro non dipende solo dal singolo imprenditore ma, se ci pensiamo bene, è proprio in questi casi che la «visione» e l’«azione» possono essere determinanti.

Mi è capitato spesso negli ultimi mesi di entrare in contatto con aziende metalmeccaniche che producono componenti per il settore automotive: tutto l’indotto che produce componenti riconducibili ai motori termici, e sono numerosissime in Italia, sono ovviamente completamente dipendenti dalle sorti della case auto loro clienti, e ciò non è uno scherzo, né dal punto di vista economico, né sociale.

Ciò nonostante dobbiamo riconoscere che la mancanza di un disegno strategico è una condizione molto diffusa tra le aziende produttive.

Prendiamo ad esempio un’industria serigrafica, come ce ne sono tante in Italia; l’esempio tuttavia è reale.

La società è storica, ma anche convenzionale, specializzata negli strumenti di comunicazione per il «retail», con qualche problema di tenuta del mercato per via dell’evoluzione della specie (concorrenza straniera) e per l’aumento esponenziale dei supporti digitali nel settore di riferimento.

Da una prima, superficiale analisi, cioè molto prima di affrontare il discorso ipotizzando di mettere in atto un LCA, l’imprenditore, attratto dai temi legati alla sostenibilità, ipotizza la necessità di introdurre in azienda nuove logiche, nuovi macchinari, con l’intento di arrivare a produrre almeno una linea vendibile come «green».

Primo errore: anteporre la scelta affrettata, e quindi metodologicamente errata, di «risolvere» la questione facendo un piccolo maquillage tecnico – tecnologico, senza prefigurarsi il progetto nel suo insieme, rappresentazione plastica del classico «guardare il singolo albero senza vedere il bosco nel suo insieme».

A volte, anzi spesso, il problema non è la volontà, o il desiderio, di guardare più avanti, ma lo stress del day by day economico finanziario, che diminuiscono di molto la capacità di rimanere lucidi di fronte all’opportunità di riconvertire in chiave di maggior eco sostenibilità la propria azienda.

L’immaginazione imprenditoriale si ferma, in questi casi, a ritenere che il procedere «subito», anche attraverso un cospicuo investimento, alla sostituzione delle macchine, iniziando da quelle più vecchie, obsolete ed energivore, per dar vita a un processo produttivo più virtuoso, sebbene assolutamente parziale, decontestualizzato e probabilmente errato, sia la scelta vincente; ma non è così.

In ambito PMI, così come già successo in parte nella grande industria, non è da sottovalutare l’attività del legislatore, che potrebbe porre dei limiti seri alle emissioni di CO2 per le attività produttive.

Intraprendenza, necessità di riposizionarsi nel mercato, ricerca di risorse per effettuare nuovi investimenti e possibile giro di vite a livello normativo generano un mix di opportunità e minacce tali da mettere in crisi anche gli imprenditori più smart.

Ma non ci sono molte alternative al cambiamento; tanto vale affrontarlo con metodo scientifico e lungimiranza.